Viaggio 2007

Perché quei sorrisi?

Breve storia di un viaggio in Zambia

Al centro-sud della penisola africana, confini non lambiti dal mare ed una curiosa forma a culla, nasce lo Zambia. Paese pacifico almeno sulla carta, con una popolazione dall’età media sufficientemente bassa da non ricordare il giorno dell’indipendenza dal colonialismo inglese, lo Zambia ha una superficie che è circa tre volte quella dell’Italia.

Sacerdote in zambiaIl fatto che la popolazione conti solo una decina di milioni di abitanti nonostante l’elevata natalità, denuncia il fatto che invecchiare sia un privilegio di pochi. Al nostro arrivo in capitale, sorpresi dal clima piuttosto fresco della stagione secca, ci accolgono quelli che sarebbero stati i nostri angeli custodi: sister Cristina, una giovane suora francescana zambiana esile e slanciata, dal temperamento sobrio e materno, e Davis, il conducente dei mezzi che ci consentiranno di visitare una buona parte del paese senza temere inconvenienti. Nei venti giorni successivi avremmo visitato i principali ospedali del paese per comprendere il livello e le caratteristiche dell’assistenza medica ai bambini. Dall’ospedale missionario a quello governativo, dall’ambulatorio isolato nella foresta alla struttura universitaria, più spesso operando assieme ai medici zambiani. L’autorevole supporto della chiesa locale, la vera spina dorsale di un paese che si è dichiarato ufficialmente cristiano, ci apre le porte ovunque andiamo. La vista delle suore francescane missionarie che ci accompagnano induce nella gente un senso di profonda gratitudine che si estende immeritatamente anche a noi. Scorrono dinnanzi tante coppie di luci grandi nel buio di volti segnati e consumati dall’AIDS, la tubercolosi, i tumori, e quelli dei bambini gonfi di fame, a cui basterebbero pochi dei nostri avanzi per sopravvivere. E poi il senso di ribellione di fronte al villaggio dei lebbrosi dove padri e figli, madri e sorelle, malati e sani sono costretti a vivere assieme a contatto con la malattia, senza riuscire a ricavare il necessario da una terra abbandonata a causa del rischio di contagio. E insieme tanti sorrisi, ma tanti davvero. Perché?

Ci domandiamo come sia possibile che le malattie che conosciamo così bene siano curate con farmaci così diversi dai nostri, quelli che non usiamo più da un pezzo, o come sia possibile che ci siano così tante persone cieche per mancanza di vitamine di cui noi ci rimpinziamo anche quando non serve, comprandole con gli spiccioli al supermercato. “Cosa consigliereste per questo bambino con una grave insufficienza epatica?” ci chiede il direttore del Children Hospital più rinomato del paese durante il giro visite affollato di studenti e di cui siamo un po’ i protagonisti. “Un trapianto di fegato” rispondiamo, tradendo un’immediata sensazione di goffa inadeguatezza. Il risultato è lo sconforto di chi ignora quanto, altrove, la scienza sia andata lontano. E poi gli sguardi pensosi e i mezzi sorrisi di chi ci sente affermare “non mollate con questo bambino, questa non è una malattia incurabile …”. In Africa si muore di malattie curabili, è da noi che non si può più morire, neanche di vecchiaia.

Intanto Davis è costretto dalla malaria a fare una sosta; niente di strano, succede anche diverse volte all’anno. Intanto però cominciamo a riconoscere dei segnali di speranza: forse metà delle famiglie accolgono in casa gli orfani dei parenti colpiti da quella malattia inesorabile che sembra ormai parte di un destino comune; padri e madri divengono genitori di nipoti o dei figli dei vicini, e nessuno sa più quanti fratelli ha, ma sono tanti, tanti. Bambini affamati che hanno da poco imparato a camminare risparmiano un po’ dell’unico pasto donato al centro nutrizionale per portarlo a casa e offrirlo a qualcuno della famiglia. E poi il miracolo dei missionari, non un gesto eroico ma una vita intera consumata per gli altri, come quella di padre Efisio che, gravemente malato, ritornerà con noi in quella terra in cui è nato e che se lo riprenderà dopo qualche giorno mentre sogna di tornare alla sua missione. O come la vita di molte suore che di nascosto regalano non solo il pane quotidiano ma anche un campo da coltivare per sé e per gli altri, non solo un consiglio per favorire lo sviluppo ma anche la possibilità di istruirsi per costruire da soli il proprio futuro, non solo un lavoro ma anche un progetto per dare lavoro ad altri. E ancora il sorriso, dietro ad ogni angolo, facile, spontaneo, malgrado tutto. Perché?

La messa gioiosa con canti, balli e urli tribali è un’emozione, una festa. E alla fine un’illuminazione. Alla riunione della domenica pomeriggio che raccoglie decine di fedeli analfabeti attorno alla catechista che legge il Vangelo viene posta una domanda che ci sorprende nella sua semplicità: “Quali sono i maggiori benefici che abbiamo ricevuto dall’abbracciare la fede cristiana?”. Non me l’ero mai chiesto! La risposta accende il cuore come un fuoco e sale inesorabile fino alle labbra: il dono più grande è che adesso sappiamo la verità, e cioè che né la fame, né la nudità, né la sofferenza, né la malattia inesorabile e tanto meno la morte ci potranno separare da un destino meraviglioso, in un giardino grande come l’Africa in cui non c’è mai la stagione secca e si può ballare per sempre al ritmo di canti e gridi tribali. Ecco il perché di quei sorrisi.

Lorenzo D’Antiga

Prof.Clinica Pediatrica dell’Università di Padova